Ciao a tutte e tutti,
buon venerdì e eccoci qui all’uscita numero 33 di questa newsletter che parla di destre, neo e postfascisti e dintorni.
Domani è il Giorno della Memoria: il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche entravano ad Auschwitz, oggi lo stesso giorno ricordiamo le vittime della Shoah e tutte le vittime dei campi di sterminio nazisti.
Per questo ho deciso di pubblicare uno stralcio dal capitolo “Il doppio movimento dell’antisemitismo” tratto Fascismo Mainstream, il mio libro edito da Fandango Libri che sostiene anche questa newsletter e che ringrazio. Un contributo che spero possa aiutare a riflettere e inventare pratiche nuove di memoria e attivazione, contro l’anestetizzazione della memoria della Shoah a cui stiamo assistendo.
Inutile girarci attorno: la guerra di Israele contro Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre ha fatto della giornata di domani un campo di battaglia politico. E a perdere sono convinto che è al momento chi ha a cuore una società e un futuro fatto di giustizia e uguaglianza, ma anche la lotta all’antisemitismo che c’è e non bisogna far finta di non vedere.
La scorsa settimana ho pubblicato su Fanpage.it una notizia penso importante: la lettura di un vademecum interno all’UCEI (l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), che dava indicazioni su come affrontare il Giorno della Memoria “dopo il 7 ottobre”: poco meno che un manuale di propaganda delle ragioni del governo israeliano.
Ah, mi ero scordato di segnalarlo qui: sono l’altra voce del podcast “Acca Larentia”, nato dal libro di Valentina Mira “Dalla stessa parte di mi troverai” (edito da Sem), dove ovviamente parlo di neofascisti e dell’uso politico della storia di Meloni e co.
Infine, per chi vuole, lunedì 29 gennaio parlo proprio di antisemitismo con lo storico Amedeo Osti Guerrazzi, LEA - Laboratorio Ebraico Antirazzista e Anpi Roma, grazie all’invito di Aurelio in Comune.
Se il mito della Religione Antifascista di Stato è disattivato, cosa rimane della Shoah come religione civile? In che stato di salute è la religione del Ricordo? Per farcene un’idea basta scorrere le foto geolocalizzate su Instagram o Facebook presso il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Berlino. Troveremo immagini di allegri salti immortalati a mezz’aria e di coppie che si baciano, c’è chi replica i Beatles che attraversano Abbey Road e gruppi che giocano a nascondino. Protagonisti soprattutto giovani studenti in gita scolastica. Passeggiando per le 2711 stele grigie, nelle intenzioni dell’architetto Peter Eisenman, il visitatore si dovrebbe perdere come in un labirinto, provare un senso di straniamento: l’idea che sorregge l’opera è che solo da un’esperienza estesa nel tempo e nello spazio – il mo- numento occupa un’area di 19.000 metri quadri – possiamo tentare di comprendere la Shoah. Per introiettare l’orrore e l’assassinio organizzato scientificamente di sei milioni di persone è indispensabile un’opera di astrazione che il monumento dovrebbe ingenerare in chi cammina tra i parallelepipedi di calcestruzzo.
Il fenomeno ha ispirato lo scrittore Shahak Shapira – cittadino israeliano berlinese d’adozione – a dare vita a un progetto chiamato Yolocaust. Un selfie sorridente tra le lapidi del Memoriale viene manipolato in modo da sostituire lo sfondo delle steli grigio scuro, con le immagini che documentano lo sterminio nazista: scheletrici corpi dietro il filo spinato, mucchi di cadaveri accatastati fuori le camere a gas, vagoni piombati che esondano del loro carico umano destinato alla macelleria della purezza ariana. Shapira crea delle gif in cui prima appare la foto originale, poi quella sofisticata. Ogni gif viene titolata con la didascalia che accompagna la foto: Jumping on dead Jews raffigura una coppia di amici che salta da due parallelepipedi del memoriale, immortalati nella loro discesa a mezz’aria, le braccia larghe i volti sorridenti. Le foto sono pubbliche ma “rubate” senza autorizzazione da Facebook e Instagram, ma anche dai social network per incontri etero e omo Tinder e Grindr: in breve tempo, vista la vasta risonanza sui media di Yolocaust, il progetto si interrompe dopo che tutte le persone ritratte chiedono la rimozione della loro immagine. In una settimana la pagina riceve 2,5 milioni di contatti e Shapira pensa di aver ottenuto il suo obiettivo: indurre a riflettere sulla vera natura del luogo degli scatti. Per dimostrarlo riporta il messaggio ricevuto dall’autore del post “Jumping on dead Jews”:
I am the guy that inspired you to make Yolocaust, so I’ve read at least. I am the “jumping on de...” I can’t even write it, kind of sick of looking at it. I didn’t mean to offend anyone. Now I just keep seeing my words in the headlines.
I have seen what kind of impact those words have and it’s crazy and it’s not what I wanted [...]
The photo was meant for my friends as a joke. I am known to make out of line jokes, stupid jokes, sarcastic jokes. And they get it. If you knew me you would too. But when it gets shared, and comes to strangers who have no idea who I am, they just see someone disrespecting something important to someone else or them.
That was not my intention. And I am sorry. I truly am.
With that in mind, I would like to be undouched.
P.S. Oh, and if you could explain to BBC, Haaretz and aa- aaallll the other blogs, news stations etc. etc. that I fucked up, that’d be great?
L’autore della foto non è razzista e non ha simpatie neonaziste. Si definisce come uno che fa scherzi stupidi, che usa un sarcasmo e un’ironia un po’ sopra le righe e che, se l’autore di Yolocaust lo avesse conosciuto come lo conoscono i suoi amici, veri destinatari dello scatto, ne avrebbe riso anche lui. Poi ringrazia Shapira per averlo aiutato a pensare al suo gesto, si scusa e gli chiede con simpatia se potesse informare anche i mezzi d’informazione che lui è un bravo ragazzo non un mostro che ride dello sterminio scientifico degli ebrei. Noi, al pari di Shapira, non abbiamo ragione per non credere alla buona fede di questo bontempone qualsiasi. Quello che dobbiamo chiederci è perché non tutti i visitatori del Memoriale non siano pervasi dal senso di inquietudine e meditazione che dovrebbe indurre in chi vi cammina all’interno. Un interrogativo che chiama in causa direttamente la percezione nella società occidentale della Shoah, dopo che il ricordo è diventato una vera e propria religione civile, che il racconto ha saturato la sfera mediatica e delle emozioni.
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Piotr M.A Cywinski è il direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz e Birkenau. Occupa così un posto d’osservazione privilegiato ed è uno dei protagonisti della trasmissione della memoria del simbolo della Shoah, e al contempo dirige uno dei musei più visitati del mondo. In un volume intitolato Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz ha raccolto le riflessioni legate al suo lavoro. Scrive Cywinski:
Il dialogo può portare a conclusioni sia di pieno accordo sia di divergenza, ma si tratta sempre di ragioni logiche, comprese da entrambe le parti. L’empatia invece – in altre parole, la compassione – è uno stato emotivo, è coesistenza nel senti- mento. Qui non ci sono conclusioni, obiettivi e aspirazioni. O senti il mio dolore oppure non lo senti. Punto e basta.
Anche in questo caso, come nel Memoriale di Berlino, per comprendere il dolore e l’orrore della Shoah viene richiesta al visitatore un’opera di astrazione razionale e allo stesso tempo di essere predisposto a sentire lo sterminio in modo epidermico, empaticamente appunto. Accade così che in molti invece, giovani e meno giovani, non sentono nulla dopo aver varcato la soglia e aver letto “Arbeit Macht Frei”. La memoria trasformata in religione civile si depotenzia, il ricordo trasformato in liturgia istituzionale diventa una liturgia sempre più priva di sostanza, un guscio vuoto. Chi non sente il dolore ad Auschwitz è perché non lo sente neanche di fronte alle ingiustizie che quotidianamente incontra camminando in una qualsiasi città. Ma c’è anche chi sente sì qualcosa, ma si tratta solo di un sentimento precotto, artificiale, razionalizza la Shoah perché gli sono state insegnate le formule della religione civile fin da quando è piccolo, ma non prova empatia. Sa pensare la Shoah ma non la riesce a sentire.
L’istituzionalizzazione del Giorno della memoria, adottato a livello internazionale per il 27 gennaio grazie alla risoluzione 60/7 votata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, durante la 42a riunione plenaria nel palazzo di vetro, è solo l’ultimo tassello di un processo lungo alcuni decenni. Come nel caso della Religione Antifascista di Stato anche la religione della Memoria sembra versare però in una pericolosa crisi, che rischia di travolgere lo stesso assunto ideologico che ha legittimato lo sviluppo della democrazia liberale: l’idea che lo sviluppo del connubio tra capitalismo e democrazia avrebbe garantito di relegare per sempre l’orrore delle camere a gas e le idee terribili che lo avevano generato in un cassetto della storia.
La religione della Memoria, diffusa da pellicole di successo, sceneggiati televisivi, liturgie che coinvolgono soprattutto le istituzioni scolastiche e i giovanissimi, finisce così per anestetizzare chi dovrebbe sentire il dolore: la completa sussunzione del portato della Shoah dalle retoriche di uno Stato che perpetua ingiustizie e si fa garante di un ordine sociale mondiale segnato da spaventose disuguaglianze, l’ha trasformata in un significante vuoto. Così, di fronte alle parole della liturgia, gli studenti sbadigliano, trasgrediscono tracciando croci celtiche e svastiche sul banco. Non sentono niente.
Alla soporifera e vuota celebrazione istituzionale, bisogna aggiungere i disastri prodotti dall’uso ideologico e distorto che da più parti si fa della Shoah nel dibattito pubblico. La ricercatrice Valentina Pisanty organizza in un saggio intitolato Abusi di memoria le storture della rappresentazione pubblica della Shoah, dividendo gli abusi di memoria in tre categorie: la negazione della Shoah, la sua banalizzazione e la sua sacralizzazione. La negazione della Shoah è l’idea scandalosa, che ha trovato però spazio a partire dagli anni Novanta grazie a una malintesa idea della libertà d’espressione, che la soluzione finale di fatto non sia mai esistita, così come le camere a gas. Lo spazio accordato ai negazionisti è sintomo senza dubbio della rincorsa dei media mainstream a tutto ciò che è sensazionalistico, ma possiamo prenderlo anche come un sintomo dell’erosione della Religione Anti- fascista di Stato. Accanto al negazionismo c’è poi la storiografia revisionista che, nella sbornia e nel sentimento d’invincibilità del neoliberismo seguito alla caduta del Muro di Berlino, tende a mettere sullo stesso piano tutti i “totalitarismi”, assimilando tout court la storia dei movimenti comunisti e socialisti al regime stalinista sovietico, anzi presentando il nazismo e il fascismo come naturali per quanto sgradevoli reazioni alla Rivoluzione d’ottobre. La banalizzazione passa poi per un discorso pubblico incentrato sulla relativizzazione della Shoah e sulla negazione della sua unicità come evento, ma anche per la sua ricezione tramite i media di massa e i prodotti culturali di largo consumo. Film, libri, sceneggiati televisivi se da una parte hanno avuto un ruolo centrale e pedagogico nell’affermazione nella coscienza e nell’immaginario col- lettivo del progetto di sterminio nazista, dall’altra hanno forzato in senso ideologico la storia (vedi gli statunitensi che liberano Auschwitz e non le truppe sovietiche come ne La vita è bella di Roberto Benigni) o l’hanno annacquata per renderla appetibile al grande pubblico.
La sacralizzazione della Shoah in ultimo è il suo farsi dogma e soprattutto ideologia. Trasgredire il dogma vuol dire prima di tutto mettere in discussione tutto ciò che dalla Shoah trae la sua legittimazione, prima di tutto le politiche dello stato di Israele. Il paradosso così vuole che, come la legittimità e la funzione della Religione Antifascista di Stato soccombono di fronte al tradimento e all’ipocrisia dei suoi sacerdoti, allo stesso modo la messa in campo di politiche di apartheid da parte dello Stato di Israele, troppo spesso insindacabili proprio per la legittimazione tratta dalla religione della Memoria, faccia diventare la Shoah oggetto di contesa, manipolazione e scontro ideologico, e non più minimo comune denominatore della coscienza collettiva. Mentre le idee del fascismo tornano a essere una prospettiva credibile, la memoria dello sterminio nazista è soggetta a una sistematica relativizzazione.
Sono cresciuta il Sicilia: credo che avrò raggiunto una qualche maturità culturale quando riuscirò ad analizzare quello che succedeva a scuola ogni settembre per la settimana della legalità.