Benvenute e benvenuti,
questa è S’È DESTRA, la newsletter che tutte le settimane racconta l’Italia al tempo del governo dei postfascisti, realizzata in collaborazione con Fandango Libri.
Oggi parliamo dell’ultimo libro di Alessandro Giuli, giornalista e intellettuale promosso dal governo a direttore del MAXXI di Roma.
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Piccolo spot: le prime presentazione di Essere tempesta. Vita e morte di Giacomo Matteotti stanno andando bene. Il libro - che racconta Matteotti ai ragazzi e alle ragazze di oggi - lo potete comprare sul sito dell’editore, negli store online e in libreria.
Il 10 giugno 1924 il fascismo uccideva Giacomo Matteotti, domani saranno passati cento anni: ricordatelo scoprendo qualcosa della sua vita, delle sue idee e delle sue lotte.
Ps. no, non mi sono scordato delle elezioni europee che si annunciano storiche per le destre. Ne parliamo la settimana prossima
È da qualche giorno arrivato in libreria Gramsci è vivo. Sillabario per un’ideologia contemporanea di Alessandro Giuli, edito da Rizzoli. Il libro è stato presentato a Roma con il parterre delle grandi occasioni, di quelli che da un verso trasformano l’evento in una dimostrazione del ruolo che l’autore occupa nella scala del potere, dall’altro ne fanno un appuntamento mondano dove non mancare, ma soprattutto dove farsi vedere per venire citati da Dagospia magari. Con l’autore ci sono Sabrina Ferilli, Pigi Battista, l’antico mentore Giuliano Ferrara, e in prima fila Arianna Meloni a suggellare laddove ce ne fosse bisogno il rapporto con Palazzo Chigi.
Partiamo da un’affermazione schietta: è un libro brutto, anzi bruttissimo, che serve solo a posizionare l’autore nel suo nuovo ruolo istituzionale di presidente della Fondazione MAXXI, l’organo di governance del museo di arte contemporanea di Roma. Dei libri precedenti di Giuli ho avuto tra le mani Venne la magna madre. I riti, il culto e l'azione di Cibele romana, pubblicato dalle edizioni Settimo Sigillo nel 2012 (del perché non è proprio ortodosso l’editore scelto ne ho scritto in questo thread), e poi il Il passo delle oche. L'identità irrisolta dei postfascisti, un libro pubblicato dal 2007 per Einaudi. Se il primo affonda nella grande passione di Giuli, il tradizionalismo di marca evoliana e il paganesimo (passione che ha tentato di portare nella tv generalista con il programma Vitalia con esiti credo decisamente cringe tra rievocazioni in costume, viaggi onirici, salamelecchi in latino), il secondo è un feroce ritratto della classe dirigente di Alleanza Nazionale.
Accertato che Giuli non è un grafomane o uno di quei giornalisti che tira fuori un libro a stagione, possiamo dire che Gramsci è vivo è una raccolta arraffazzonata di testi d’occasione, una revisione di contributi e discorsi pronunciati da quando è a capo del MAXXI. Dovrebbe essere una sorta di manifesto della propria mission culturale, quello che ne esce fuori è un’accozzaglia riassumibile a pochissimi concetti e a qualche riflessione sul rapporto tra una destra ormai adulta e che ha i numeri per conquistare e gestire il potere, e la cultura.
Alcune cose Giuli ce le dice già nell’introduzione, con la sua prosa sempre un po’ ampollosa e che vuole essere misteriosa:
Siamo figli della terra e del cielo stellato, celeste è l’origine. Le radici nazionali non possono gelare poiché s’immergono in profondità intangibili che travalicano la favola e l’intreccio storico e si saldano nel nostro genius loci meridiano espresso in una lingua universale di assolata Concordia. Fuor dalla metafora orfico-tolkieniana: è giunta l’ora che la destra italiana, ormai adulta, celebri il proprio ingresso nell’età matura e si lasci alle spalle il «terribile vuoto morale dei paesi vinti» (Giuseppe Bottai) così come ogni lacerto di nostalgia per un’identità illusoria animata da fantasticherie revansciste, reazionarie, regressive. Sappiamo che non esiste alcun monopolio del patriottismo, il fascismo è morto e sepolto e storicizzato entro i confini pur mobili della ricerca scientifica; e tuttavia il giudizio politico è irrefutabile: nel XX secolo il Torto è stato sconfitto da una Ragione la cui astuzia ha hegelianamente prodotto la Nuova Italia antifascista in cui specchiarsi e riconoscersi tra luci e ombre senza nulla obliterare della nostra autobiografia.
Traducendo: compito della destra non è guardare al passato, o disputare ancora su quanto di buono c’è stato nel fascismo. Piuttosto il compito della destra è costruire una nuova cultura nazionale dove ci sia spazio anche per la propria “autobiografia”. E non a caso viene citato Giuseppe Bottai, tra le figure da salvare e restituire alla nazione. Fascista della prima ora, sottoscrittore del Manifesto della Razza, entusiasta dell’avventura coloniale italiana con annessi massacri, ministro dell’Istruzione e in ultimo tra i fascisti che aderendo all’ordine del giorno Grandi si allontaneranno da Mussolini non seguendolo sul sentiero di Salò. Non a caso proprio a Bottati il MAXXI ha dedicato uno dei suoi primi talk dell’era Giuli, con la presentazione del libro Mussolini io ti fermo del nipote e giornalista del Tg1 Angelo Polimeno Bottai.
Secondo Giuli, dopo una fase di destabilizzazione del sistema dati dall’affermarsi di diversi populisti, il quadro politico in questo momento va normalizzandosi, e la destra italiana deve candidarsi a rappresentare stabilmente uno dei due poli del sistema.
Le alterne fortune dell’esperimento (la politica populista ndr) hanno comunque consentito di riassorbire l’enfiagione crepuscolare aprendo la strada a un’aurora normalizzante: il ripristino d’una democrazia dell’alternanza fondata sul confronto tra un progressismo riformista con venature radicali e un conservatorismo social-liberale in via di consolidamento ma ancora minacciato da pulsioni anti sistemiche e riflessi condizionati da torsioni autoritarie tese a minare la divisione dei poteri costituzionali, la libertà d’espressione e i diritti civili. Su questo crinale, oggi, a destra più che altrove, si gioca la madre di tutte le sfide: transitare dalla mentalità degli esclusi e dei «governati» a una logica di Sistema, che alla lettera significa «stare insieme» e oltre la lettera vuol dire appunto autopercepirsi come una classe dirigente sorretta da una visione prospettica della società.
E qui entra in gioco la cultura che avrebbe il ruolo di creare il terreno d’incontro, di dibattito ma anche di identificazione comune: mentre la sinistra vuole omologare e escludere, una destra moderna deve valorizzare le differenze. Giuli ovviamente non può che riportare tutto alla tradizione, e in particolare a quella di Roma, per ribadire dietro il vestito buono messo per l’occasione e le citazioni classiche un po’ a casaccio, che il punto è la costruzione di un’identità e di una comunità di sangue e suolo (prima italiana, poi europea, poi occidentale):
Siamo nel cuore della tradizione occidentale romana, nel regno del diritto (Ius) che si universalizza sacralmente (Fas): Roma sorse come un genus mixtum originato da popolazioni culturalmente omogenee ma etnicamente differenti, sempre aperto all’ingresso dell’«altro da sé» come figura di arricchimento di una koiné aperta e anti genetica che richiedeva agli stranieri un contatto profondo con il «genio del luogo acquisito» ma rifiutava il mito dell’autoctonia. Sicché per noi la cittadinanza (italiana, europea, occidentale e via così, in una logica di cerchi concentrici), oltreché un fatto biologico è una conquista culturale quotidiana.
Dopo aver buttato lì (come se l’affermazione non fosse piena di conseguenze) che la cittadinanza è “un fatto biologico”, ci dice pure che è “una conquista culturale quotidiana”. Un’idea perfettamente in linea con la scuola immaginata dal ministro Giuseppe Valditara, dove più che i dinosauri giovani studenti e studentesse dovrebbero imparare fatti e personaggi ragguardevoli della storia d’Italia, ma anche con il differenzialismo di marca neodestra, con cui Giuli condivide l’amore per il paganesimo.
Nel libro Giuli poi insiste sul museo come spazio pubblico e di confronto, ma anche sulla missione del MAXXI che sarebbe quella, con l’apertura a Messina di una sede, di proiettare la cultura italiana e l’istituzione che dirige sul Mediterraneo. Un posizionamento che va letto, come spiegato esplicitamente dall’autore, nell’ambito della proiezione italiana sul Mediterraneo tramite il Piano Mattei, ma anche nell’ambito della costruzione di un’identità europea e occidentale:
L’Europa, l’Europa nostra, nel quadro di una crescente contrapposizione tra mondo libero e dispotismi illiberali, deve ritrovare la propria anima e la propria missione occidentale, mediterranea e latina. Missione italiana in misura maggiore poiché ciascuno sa che l’Italia romana è il dantesco «giardino de l’imperio» nel quale sin dal Medioevo ogni grande potere costituito ha cercato di trarre la propria legittimazione politica e il proprio carisma sovrannaturale.
Cosa sia il “carisma soprannaturale” di cui sarebbe portatrice l’Italia non è dato saperlo, però quel che sappiamo di certo è che la proiezione mediterranea del MAXXI si è finora tradotta in alcuni dibattiti sul conflitto israelopalestinese, che spiccavano per l’assenza di intellettuali palestinesi o arabi. Prima con la presentazione del libro di Nathania Zevi Il nemico ideale, edito dalla casa editrice della Rai di cui Zevi è giornalista, alla presenza tra gli altri di Paolo Mieli, del ministro Sangiuliano e della Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi di Segni; poi con il libro di Fiamma Nirenstein 7 ottobre 2023 edito da Francesco Giubilei, con la presenza sempre di Di Segni e di Paolo Mieli. Una strana idea di cultura mediterranea, che sembra uno strumento di soft power al servizio di un progetto neocoloniali (Piano Mattei), imbevuta peraltro di un orientalismo fuori tempo massimo.
Ora dobbiamo dire che Giuli in questo libro torna ossessivamente a citare la Costituzione come l’unico perimetro entro il quale è legittimo muoversi, accostandosi più volte all’auctoritas di Norberto Bobbio per presentare la sua idea di intellettuale libero dai condizionamenti, per proporre una cultura che è semplicemente cultura, senza essere né di destra né di sinistra.
Ma cosa ha a che fare Antonio Gramsci con tutto ciò? Ce ne occupiamo subito, ma prima enunciamo brevemente la tesi: il titolo Gramsci è vivo è solo una paraculata per far parlare di sé. Una soluzione catchy, perché in realtà quello che postula Giuli è la necessità della fine dello scontro ideologico. Nella nuova concordia nazionale, Gramsci viene ucciso e poi sepolto.
Quella che Giuli vuole archiviare è la stessa idea gramsciana di egemonia, attorno alla quale la nuovelle droite francese di Alain de Benoist e soci hanno costruito una lettura da destra di Gramsci, postulando la necessità di puntare sulle idee e sul rapporto con i media, mettendo al centro quella che è stata coniata come metapolitica. Gramsci va rottamato per Giuli proprio perché interpreta la guerra culturale come un’estensione dello scontro politico. L’egemonia dell’autore dei Quaderni del Carcere si sarebbe tradotta in poche parole in quel marxismo culturale che per decenni avrebbe escluso le idee della destra dall’agone pubblico. Oggi una sinistra in ritirata reagirebbe ai mutati rapporti di forza con la cancel culture e la diffusione di una politica woke, che continuerebbe nella volontà di escludere le idee e gli intellettuali della destra.
Giuli spiega che da parte del nuovo corso al potere c’è equilibrio, e a che alla destra che oggi si appresta a occupare le posizioni chiave delle istituzioni culturali italiane, spetta "l’onore della controprova”, nel saper fare meglio dei “mandarini” della cultura di sinistra. Se ci sono meccanismi di occupazione brutale, questi non hanno niente a a che fare con Giorgia Meloni, dice chiaramente senza citare per nome la premier:
Ma in questo caso i pagliacci da accompagnare all’uscio sono pure coloro che rincorrono gli stilemi e le parole d’ordine d’una sinistra in ritardo; ovvero quegli abusivi e obsoleti gerarchi minori, residui di remote stagioni e dunque estranei al nuovo corso di Palazzo Chigi, ammalati d’ipertrofia acquisitiva e alla perenne ricerca del Gramsci di turno come «uno di noi» (e Antonio Gramsci lo fu, in effetti, ma non in «quel senso») da ibridare con qualche vecchio santino sopravvissuto nel retrobottega delle catacombe nere; e altri pagliacci sono le controfigure stentoree ancor nerovestite, nemiche giurate di Palazzo Chigi, che ignorano di rievocare il fascismo da operetta nel mentre mettono in scena la propria operetta di regime, smerciando per un bagaglio culturale il loro personale Bagaglino (con rispetto parlando verso l’originale).
Giuli si chiede se “oggi che le ideologie sono estinte”, sia “possibile assistere a un dibattito delle idee più aperto e democratico, meno segnato da estremismi e fanatismi?”.
Poi tira per la giacchetta il povero Antonio Gramsci citando una sua frase, già citata da Bobbio: “Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario”. La destra dunque non deve puntare all’egemonia, piuttosto stabilire che “la cultura dovrebbe creare e rivendicare per sé degli spazi (istituzionali e no) per il dibattito libero”, che “dovrebbe porsi in maniera neutra”.
L’obiettivo è una cultura del “dialogo” e del confronto, che a dire il vero si è visto poco fino ad oggi nel programma del MAXXI, che sembra invece più utile a costruire un discorso utile esclusivamente a legittimare il personale politico postfascista, e a mostrare plasticamente le alleanze del nuovo potere.
“È arrivato il momento di guardarsi negli occhi con un atteggiamento di apertura, di riconoscere la dignità dell’altro nella sua differenza. Non di superare le distinzioni di slancio, non di appiattire su uno schiacciante egualitarismo o su un abissale universalismo la differenza, ma viverla, accettarla, metterla a tema, interrogarla. E insieme superarla per il meglio.”. L’egualitarismo della sinistra, ancora una volta, viene presentato da destra come un mostro uniformatore e tirannico, al contrario si esalta la differenza, anche se ovviamente solo e soltanto nei rigidi confini della cultura nazionale.
Credo che Alessandro Giuli con questo libro voglia archiviare Gramsci, anche il Gramsci di destra, per saltare a piedi pari il punto più problematico della cultura di destra: la sua difficoltà nel fare proprio la cultura nazionalpopolare. Non basterà cambiare il conduttore di Sanremo, o tentare di silenziare le dichiarazioni al concertone del Primo Maggio in diretta televisiva sulla Rai, per diminuire la distanza tra gli artisti e gli intellettuali che producono la cultura di massa nel nostro paese, e la destra postfascista italiana. Quello che si può fare però è imporre la par condicio nei dibattiti, insistere sulla propria legittimità, investire in una nuova cultura nazionale che riveda radicalmente il passato recente del paese insistendo sull’uso pubblico della storia, escludere ogni conflitto, demonizzare ogni conflitto, bloccare e rallentare il nuovo, sottrarre spazi concedendone qualcuno. Una cultura neutra, una cultura che è solo cultura (?).
Giuli nominandolo dice che non c’è più bisogno di Gramsci. Nominandolo uccide Gramsci. Ma non è il primo che ci prova.