Ciao e buon sabato,
questa è l’uscita 91 di S’È DESTRA, la newsletter che racconta fatti e idee delle destra in Italia e nel mondo. La scrivo io che sono Valerio Renzi, in collaborazione con Fandango Libri.
Oggi ci poniamo una domanda non da poco: perché nonostante peggiori le condizioni materiali di vita di quasi tutti, la destra continua a vincere?
Se non è la prima volta che capiti da queste parti saprai che ho scritto un libro uscito da un mesetto: si intitola Le radici profonde. La destra italiana e la questione culturale e parla di Tolkien, Giuli, Evola, Atreju, revisionismo storico, Sanremo, Gramsci e molte altre cose.
Le prossime presentazioni:
Martedì 29 luglio a Roma all’Aniene Festival con Leonardo Bianchi
Sabato 23 agosto al Festival di Radio Onda d’Urto di Brescia con Elia Rosati e Luca Casarotti.
Segnalo infine la nuova recensione al libro di Vito Saccomandi su MicroMega.
Per non perderci di vista online: la mia mail è valrenzi@gmail.com, ho un profilo su X e uno su Instagram, su Bluesky e Mastodon. S’È DESTRA è anche un canale Telegram per tutte le cose che non stanno in una newsletter settimanale.
Ora iniziamo!
La destra vince perché, pur non redistribuendo ricchezza, redistribuisce la possibilità di esercitare potere e violenza sul piano simbolico e materiale ad alcune porzioni di popolazione, che creano un blocco sociale trasversale e interclassista potenzialmente vincente.
Questa è la tesi che vogliamo discutere oggi, cominciando a buttare a terra degli appunti che ci auguriamo possano essere utili ad aprire un dibattito.
Per il nostro ragionamento riprendiamo il libro di Alberto Toscano Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere, del quale qui abbiamo parlato con l’autore. Con il suo lavoro Toscano apre molteplici tracce di lavoro, provando a descrivere il tardo fascismo in termini operativi, più che arrovellarsi su categorie e definizioni.
Una delle più promettenti piste che l’autore apre lo fa a partire da un libro di cui si è parlato molto Nazismo e management. Liberi di obbedire di Johann Chapoutot tradotto in Italia da Einaudi. Chapoutot è uno storico che da decenni si occupa di alcuni aspetti del regime nazionalsocialista, occupandosi anche della mentalità dei cittadini sotto il nazismo.
In quello che è senza dubbio il suo lavoro più discusso e influente, ripercorre le tracce di Reinhard Höhn, generale delle SS che nel dopo guerra fonda una scuola per formare dirigenti d’industria e manager, mettendo a frutto quanto aveva imparato nella sua carriera al servizio del Reich. Emerge così un’immagine del nazismo lontana dal monolite totalitario che abbiamo a mente, fatto solo di rigidissime gerarchie e di ferree catene di trasmissioni di ordini e comandi.
Chapoutot mostra come il nazismo promuovesse una cultura del lavoro nella quale i sottoposti dovevano raggiungere gli obiettivi assegnati prendendo le decisioni in modo repentino, aggirando i limiti imposti dalla burocrazia laddove fosse necessario, senza ricorrere alla continua interpellanza dei superiori e senza demoralizzarsi. Insomma il soldato/manager/quadro nazista doveva sviluppare le classiche doti richieste a un manager di successo, promuovendo l’intraprendenza e l’autonomia decisionale. Uno spazio di libertà dunque, un margine nel quale l’arbitrio era incoraggiato.
E proprio questo spazio di libertà lasciato ai propri uomini dal regime totalitario per eccellenza, è quello che dobbiamo interrogare, provando a estenderlo non solo ai quadri della burocrazia, dell’impresa e dell’esercito, ma a porzioni più ampie della società. Per farlo ci serviamo di Michael Foucault, il quale intuisce come parte essenziale dell’efficacia della macchina di potere dei fascismi come regime si trovava nella privatizzazione e nella liberalizzazione dell’esercizio del dominio: “Il nazismo non ha mai dato alle persone nessun vantaggio materiale, non ha mi distribuito altro che potere”. Si tratta dunque di guardare al potere dei regimi totalitari non solo come una cessione di sovranità dal basso verso l’alto e poi dell’esercizio di un potere assoluto dall’alto verso il basso, ma di un proliferare di pratiche di potere, repressione, violenza endemiche nella società, esercitate dagli appartenenti statali ma anche dai singoli cittadini. È la “libertà fascista” di cui parla Foucault.
Dunque se il neoliberismo ci ha addestrato alla competizione e all’individualismo, per raggiungere quegli obiettivi che ci avrebbero permesso di avere quelle cose il capitalismo ci ha spingeva a desiderare, ora sappiamo che quelle promesse e quei desideri sono destinati per la maggior parte di noi a rimanere insoddisfatti. Gli anni dell’austerità hanno trasformato la selezione e la performance nell’unica via per sopravvivere, nessuno immagina più davvero una strada lastricata di successi. Se i partiti di garanzia del sistema (fossero di centrodestra o di centrodestra) hanno tentato di coniugare austerità e democrazia liberale, tra storture sempre più evidenti e rigidità poste a tutela del mercato e del profitto, non sono però stati disposti a redistribuire nulla. Non forme di welfare e non ricchezza, tanto meno sicurezza.
Ora la risacca del momento populista sembra segnare che è il momento delle destre più o meno estreme. Un ciclo politico aperto dalla vittoria di Giorgia Meloni in Italia e a seguire da quella di Donald Trump in Usa. Neanche questa destra venata di fascismo promette davvero ai suoi elettori ricchezza e sicurezze sociali. Pensiamo all’Italia: la produzione industriale ha mostrato il segno meno per ventisei mesi consecutivi, peggio che nel periodo della pandemia Covid. La classe lavoratrice italiana continua a perdere potere d’acquisto, mentre i salari non crescono. C’è il rischio concreto di lavorare e rimanere poveri, mentre la sanità pubblica è sempre meno una garanzia di cure universali e l’accesso al credito (e quindi in Italia alla casa come fonte di stabilità) sempre più difficile. Ce la fa chi ha una rendita, anche se piccola, e le giovani generazioni che almeno in parte possono consumare i risparmi o le pensioni dei genitori.
Il discorso delle destre è allora vincente perché non promette welfare e ricchezze, dà per assodato che la crisi del 2008 ha cambiato per sempre il paesaggio sociale che abitiamo. Quello che promette d alcuni settori della società, è invece di mantenere la propria collocazione nella piramide sociale e il proprio status, redistribuendo quote dell’esercizio del potere e della violenza, materiale e simbolica.
Il rafforzamento dei dispositivi razzisti ne è un esempio. Portando alcuni settori della classe lavoratrice a essere gratificati per poter esercitare il proprio dominio (direttamente e indirettamente) su altri settori di popolazione. Il successo dell’estrema destra nel giovane elettorato maschile in molti paesi risponde alla stessa logica: non si promette un futuro di benessere e tranquillità, ma la certezza di non perdere il proprio posto nel mondo, a cominciare dalla certezza di appartenere al genere dominante. Ancora una volta la destra garantisce la libertà di esercitare potere e violenza ad alcuni, legittimando l’ordine patriarcale.
Se questo ragionamento ha una sua validità, è utile anche ripensare il ruolo delle guerre culturali. Queste non sono un’arma di distrazione o di propaganda, ma sono il centro dell’azione politica delle destre: vincerle vuol dire garantire la legittimità alla propria azione politica, più che la presentazione e il confronto dei programmi economici dei partiti. Se nessuno dei partecipanti al gioco politico mette in dubbio davvero la ricetta neoliberismo, coniugando a essa un gradiente più o meno basso di democrazia formale a seconda del contesto, l’indirizzo e la soddisfazione di desideri e pulsioni diventa il terreno principale del consenso politico.