Lo stragismo che la destra italiana vuole rimuovere
Il racconto che Fratelli d'Italia fa della storia della destra italiana è autoassolutorio e vittimistico, come si è visto con le polemiche attorno all'anniversario di Acca Larentia.
Bentrovate e bentrovati,
questa è l’uscita numero 32 di S’È DESTRA, newsletter settimanale che scrivo in collaborazione con Fandango Libri, la casa editrice di Fascismo Mainstream.
S’È DESTRA è un atlante delle destre radicali in Italia e non solo, esce una volta a settimana (di solito il venerdì, al più tardi la domenica).
Di solito proviamo in questo spazio a tenerci a fare dalla cronaca stretta, ma dopo una settimana di polemica sul rito del “presente” all’anniversario della strage di Acca Larentia dello scorso 7 gennaio, questa volta è d’obbligo.
Così oggi vi propongo una riflessione sull’autonarrazione che fa della storia la destra postfascista italiana. Spoiler: è un’autonarrazione un po’ paracula, come si dice a Roma.
Due cose che ho scritto a tal proposito questa settimana:
Perché da antifascista penso che mettere fuori legge i gruppi neofascisti sia una pessima idea
Acca Larentia: il rito del “presente” dei giovani di Fratelli d’Italia
A qualche giorno di distanza per i saluti romani a Acca Larentia., proviamo a capire perché la memoria delle vittime della destra neofascista degli anni Settanta è al centro degli sforzi profusi da Fratelli d’Italia in ambito politico/culturale, è perché non si tratta solo di polemica strumentale o di folklore, torniamo di nuovo al 25 ottobre 2022, quando Giorgia Meloni pronuncia il suo discorso alla Camera con il quale chiede la fiducia.
Sono tre i passaggi chiave rispetto alla storia della destra italiana che, per la prima volta, si trova a occupare la Presidenza del Consiglio.
Il primo è la condanna del fascismo. Libertà e democrazia sono gli elementi distintivi della civiltà europea contemporanea nei quali da sempre mi riconosco. E dunque, a dispetto di quello che strumentalmente si è sostenuto, non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso. Esattamente come ho sempre reputato le leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana, una vergogna che segnerà il nostro popolo per sempre.
Il secondo è la condanna dell’antifascismo militante. Nell'abisso non si pareggiano mai i conti, si precipita e basta. Ho conosciuto giovanissima il profumo della libertà, l'ansia per la verità storica e il rigetto per qualsiasi forma di sopruso o discriminazione proprio militando nella destra democratica italiana. Una comunità di uomini e donne che ha sempre agito alla luce del sole e a pieno titolo nelle nostre istituzioni repubblicane, anche negli anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando nel nome dell'antifascismo militante ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese. Quella lunga stagione di lutti ha perpetuato l'odio della guerra civile e allontanato una pacificazione nazionale che proprio la destra democratica italiana, più di ogni altro, da sempre auspica.
Il terzo riguarda la piena legittimazione politica della destra italiana. Da allora, la comunità politica da cui provengo ha compiuto sempre passi in avanti verso una piena e consapevole storicizzazione del Novecento, ha assunto importanti responsabilità di governo giurando sulla Costituzione repubblicana, come abbiamo avuto l'onore di fare ancora poche ore fa, ha affermato e incarnato senza alcuna ambiguità i valori della democrazia liberale, che sono alla base dell'identità comune del centrodestra italiano.
In poche parole la ricostruzione della vicenda della destra postfascista per Meloni è riassumibile così: dopo la guerra, nonostante l’esclusione del Movimento Sociale Italiano dalla Costituente per “ovvie ragioni” (dove le ovvie ragioni sono la precedente adesione al fascismo), la destra italiana ha docilmente seguito la via democratica, e questo nonostante la persecuzione, la criminalizzazione e la violenza politica subita. Ora invece è possibile chiudere per sempre quel capitolo, accantonando l’antifascismo ideologico nella condanna unanime della violenza politica degli “anni di piombo”. Infine: la destra italiana, attraversata la vicenda della Seconda Repubblica con l’approdo al governo (e per questo sempre dovranno ringraziare Silvio Berlusconi), non ha ormai bisogno di esibire nessuna patente di legittimità democratica a nessuno.
La conseguenza di questo ragionamento, di questa auto narrazione della destra italiana che si pretende condivisa, è che di fatto quello che Meloni e soci stanno proponendo alle sinistre è un nuovo patto repubblicano, una nuova sintesi nazionale, che non si basi più sull’antifascismo come valore condiviso e sulla Resistenza come esperienza comune, ma piuttosto sul reciproco riconoscimento dei “ragazzi caduti”, e sull’equanime condanna degli anni di piombo. Come già ho avuto modo di scrivere questo terreno è un terreno di convergenza quasi scontato con la cultura postcomunista.
Nel discorso della destra italiana rimane però una grande amnesia che lo rende afasico al vaglio della logica e dell’esercizio di un minimo di senso critico: la scomparsa delle responsabilità dirette avute nella stagione delle stragi. Le morti dei giovani missini sono presentate sotto l’aurea di un martirologio che rende impossibile fare una discussione seria. Prese singolarmente si tratta di tutte vicende tragiche e terribili, come tragico e terribile è l’omicidio politico, ma senza la storia, senza contesto, rimane sono il lato emozionale, la storia di ragazzi assassinati da una violenza presentata di volta in volta come “cieca” e “barbara”, in definitiva incomprensibile secondo una logica politica.
Il lavoro più significativo in questa direzione è stato fatto in questi anni attorno alla figura di Sergio Ramelli, attraverso la promozione di un libro “Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura”, la cui ultima edizione può pregiarsi della prefazione del presidente del Senato Ignazio La Russa. Militante del Fronte della Gioventù, fu ucciso a Milano da un commando di Avanguardia Operaia: aggredito nel mezzo di una spedizione punitiva il 13 marzo 1975, morì dopo un mese e mezzo di agonia. Il “presente” per Sergio Ramelli a Milano, più di quello per Acca Larentia a Roma, è stato in questi anni un momento che ha unito l’estrema destra e la destra istituzionale, e fino a pochi anni fa erano molto i dirigenti di Fratelli d’Italia che partecipavano al rito non disdegnando di fare il saluto romano.
Ma soprattutto la figura del giovane missino è al centro di una capillare campagna di propaganda della sua storia, e assieme a essa della lettura dei giovani della destra italiana come vittime, esclusi, perseguitati dalla magistratura e i comunisti. Accanto al libro un fumetto, “Sergio Ramelli. Quando uccidere un fascista non era reato” edito da Ferro Gallico”, e decine di iniziative che si sono moltiplicate in questi anni (tutto è documentato sul sito sergiorgamelli.it) con la presenza quasi sempre di esponenti di Fdi, e la richiesta d’intitolazione di vie, giardini, spazi pubblici. A oggi, secondo il sito, sono 32 le intitolazioni già avvenute, ma molte sono quelle in discussioni nei consigli comunali che ancora devono essere approvate.
Il gruppo dirigente di Fratelli d’Italia che oggi governa il paese, che per lo più ha svolto il suo apprendistato politico tra la fine della Prima e l’inizio della Seconda Repubblica, è pronto a chiedere una commissione parlamentare d’inchiesta per la violenza politica in Italia per i morti di “ogni colore”, ma ancora oggi è assolutamente incapace di discutere delle responsabilità della destra che si vorrebbe democratica nella strategia della tensione. “Nessuno di noi era a Bologna”, dove con quel noi si rende esplicita una comune identità tra la destra post missina e i Nuclei Armati Rivoluzionari di Mambro e Fioravanti, è una frase che quasi ogni parlamentare di Fratelli d’Italia ha postato almeno una volta su Facebook, a voler avere la pazienza di controllare.
La contiguità del Movimento Sociale Italiano nei confronti dei militanti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale è un dato di fatto. Non solo perché l’Msi ha garantito il rientro degli ordinovisti in seno al partito utilizzato come “ombrello” per mettersi al riparo della repressione (su questo e molto altro consiglio il libro di Elia Rosati e Aldo Giannulli), non solo perché autorevoli esponenti missini in quegli anni hanno garantito coperture, connivenze e agevolato la vita alla destra eversiva, ma soprattutto perché a ogni livello, anche di fronte alle strade e le scelte diverse, il mondo della destra è sempre rimasto sostanzialmente unito.
Quando scrive la sua autobiografia la destra postfascista è colpita da tante, troppe amnesie, tutte utili ad ascriversi al ruolo esclusivo di vittima.