Benvenute e benvenuti all’uscita numero 67 di S’È DESTRA, la newsletter che ogni settimana racconta i protagonisti, le idee e le culture politiche delle destre in Italia e nel mondo. La scrivo io, Valerio Renzi, in collaborazione con Fandango Libri. È gratuita e tutte le puntate precedenti si possono leggere qua.
Oggi parliamo degli 883, di Max Pezzali e risponderemo all’annosa domanda: sono di destra?
Vi segnalo due cose che ho fatto su Fanpage.it questa settimana.
La prima è una breve storia di Atreju (di cui questo pezzo è una specie di spin-off), la seconda è un video con Zerocalcare, Eddi Marcucci e Tiziano Saccucci, in cui ho messo Michele nel ruolo dell’host per capire cosa sta succedendo in Siria e il futuro della rivoluzione del Rojava.
Spero ci vediamo più tardi in piazza a Roma per il corteo contro il DDl Sicurezza
Ora iniziamo!
Non ho visto Hanno Ucciso l'Uomo Ragno - La leggendaria storia degli 883 non per snobismo, ma perché tutti ne discutono e non ho voglia di argomentare se mi è piaciuto o meno, ma soprattutto non ho voglia di discutere del come e del perché gli 883. Ho visto amicizie rovinarsi attorno a simposi fin troppo ampollosi o vernacolari attorno al tema, perché o gli 883 per te hanno voluto dire qualcosa, o non hanno voluto dire qualcosa. E io appartengo senza ombra di dubbio alla prima categoria.
Forse non c’è un pezzo che ha fatto discutere la redazione di DINAMOpress come questo di Angelo Bonfanti intitolato I cowboy non vincono mai in cui, in piena wave di rivalutazione della poetica degli 883 come un fatto serio, affrontava con gli strumenti della critica i testi del gruppo.
Ma allora se non hai visto la serie, e questa newsletter parla di tutt’altro, perché ne stiamo parlando? Perché immancabilmente esce fuori la domanda: ma gli 883 sono di destra? E visto che questa settimana c’è Atreju, vale la pena ricordare che nel 2011 Max Pezzali chiudeva la tredicesima edizione della festa, con un concerto di cui online si trova un solo video su Youtube. Il filmato è di pessima qualità, si sente e si vede il pubblico scatenarsi al tempo di Sei un mito (canzone del che Pezzali proporrà anche nel bis e con la quale chiudere l’esibizione), mentre il cantautore indossa una camicia a scacchi d’ordinanza con sotto una t-shirt bianca.
Nel 2011 Max Pezzali è andato a Sanremo. Quell’edizione i primi dieci big si classificano per la finale, e lui rimane fuori. Il suo terzo album solista Terraferma, che arriva dopo quattro anni di silenzio, esce subito dopo il Festival e tutto sommato conferma che ha ancora una carriera. L’estate fa un tour e a settembre, al termine degli impegni ufficiali, decide di esibirsi ad Atreju. Perché lo fa? Perché è un fan del Popolo delle Libertà di Fini e Berlusconi? O perché è sempre stato un mezzo fascista e le sue canzoni stanno lì a raccontarlo e noi non ce ne eravamo accorti? Credo per nessune di queste ragioni, ma ci arriviamo.
Quasi un anno dopo l’esibizione sul palco dei giovani della destra italiana, il 15 giugno del 2012, rilascia un’intervista al Secolo d’Italia in cui conferma di aver fatto a 14 anni la tessera del Fronte della Gioventù.
Cos’è la musica impegnata, se non il racconto del quotidiano?
Esatto, io temo che questa sia una fisima tipica del nostro Paese, perché dobbiamo passare sempre da quelle categorie mutuate dal fatto che il cantautorato impegnato era figlio di una stagione politica. Invece, io sono sempre stato convinto che il compito della canzone popolare fosse quello di intrattenere e di fotografare la realtà. Noi provavamo a raccontare la nostra realtà di provincia, come faceva il rapper americano. Il mio era un mondo post-ideologico, quello del bar di provincia dove si attendeva qualcosa che non arrivava. Oggi quella così lì è stata rivalutata, ma all’epoca veniva considerata un’orrenda descrizione crepuscolare dove c’era solo il rigetto della politica.
Per questo non ti hanno mai invitato al concerto del Primo Maggio?
Non lo so, forse c’era la paura di invitare un “estraneo”. La divisione tra pop e rock era una guerra di religione. In Italia anche chi è apparentemente progressista e rivoluzionario diventa un conservatore quando si tratta di accettare l’innovazione.
C’entra pure la storia della tessera del Fronte della Gioventù? È vera?
Sì. Avevo 14 anni e un amico del bar ci chiese di tesserarci per votare a un congresso, qualche giorno prima della votazione.
Qui Max dice una cosa importante sulla sua poetica: non è che brandire le bandiera rossa vuol dire non avere dei valori, o non essere impegnato. Siamo sicuri che ad esempio brani come Figlio di un cane o Lui e lei di Luciano Ligabue, al pari di Con un deca o Se tornerai degli 883 non abbiano un nocciolo di racconto politico? E questo nocciolo esprime un punto di vista, un racconto di destra? Ecco, io francamente non credo.
E poi conferma la giornalista che sì, quella tessera del Fronte della Gioventù l’ha presa. Una riga scarna di risposta che lascia ancora aperti molti interrogativi. Ora non sappiamo se l’intervistatore abbia omesso o meno tutto il racconto, ma nella sua autobiografia Max90. La mia storia. I miti e le emozioni di un decennio fighissimo (Sperling & Kumpfer), sente il bisogno di tornare su quella vicenda. E qui la racconta in modo molto diverso, che si può sintetizzare in questo modo: lui e i suoi amici fanno la tessera è vera, ma per votare un loro amico e farlo eleggere come rappresentante locale. Quando arrivano alla sezione per votare e il segretario se li vede arrivare, li caccia in malo modo. Insomma Max Pezzali al massimo è stato quasi un punk (come testimonia il vinile dei Nabat con i Rappresaglia, donato a Zerocalcare nel corso di uno dei loro incontri), ma non quasi un fascio.
Ma allora che cavolo ci faceva Max Pezzali ad Atreju!? La risposta è secondo me in questa intervista rilasciata a Rolling Stones, in cui parla di nuovo di politica per spiegare cosa gli manchi di più degli anni Novanta:
Sembrerà una cosa banale e buonista, ma la dico lo stesso: l’idea che non si possa costruire niente di buono se non di concerto con chi la pensa diversamente. Vorrei lasciare indietro la polarizzazione eccessiva degli anni ’10, che è stato il male del nostro tempo. Nei ’90 la sinistra con Blair stava diventando pop, socialdemocratica; la destra tradizionale, invece, aveva abbandonato l’MSI e guardava al centro. Era il periodo di coalizioni come L’Ulivo, della fine delle grandi ideologie. C’era l’idea di costruire il futuro insieme, non l’uno contro l’altro. Dovremmo imparare di nuovo a incontrarci su un terreno comune, che è quello della ragione e della scienza.
Degli anni Novanta Pezzali rimpiange quel sentimento di ottimismo di cui è stato per molti versi uno degli aedi. L’idea che non è lo scontro ma la buona volontà e il dialogo a mandare avanti le cose, che l’ideologia siano un male. Questo è lo spirito con cui sale sul palco di Atreju, quando la destra italiana stava portando avanti un massiccio investimento per dare di se stessa un’immagine diversa. In quegli anni scompaiono le serate di musica identitaria con le braccia tese, e provano ad arruolare i nomi della musica pop perché i giovani di destra vogliono essere come tutti gli altri. E Pezzali ha bisogno di credere che sia così, perché quello in cui crede, il mondo che rimpiange, prevede che i fascisti siano cambiati, che la destra sia democratica e liberale, che tutti si possa parlare addivenire a scelte utile per il bene comune. Pezzali non è di destra, è vittima delle sue illusioni, intrappolato in quell’epoca che gli ha dato successo e fama.
Nel clima politico di oggi, con la polarizzazione politica che si estremizza attorno a ogni questione, dove la “ragione e della scienza” invocate da Pezzali sono oggetto di contendere quotidiano (vedi lo scontro tra no vax e si vax), forse non salirebbe su quel palco alla ricerca di quegli anni Novanta quando le ideologie erano finite, che non torneranno più.
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