A pranzo Dar Maghetto con Antonio Angelucci
Il tycoon della destra italiana, tra mito del self-made man e Ferrari, tute acetate e i miliardi fatti con la sanità, processi e un seggio in parlamento che non gli toglie più nessuno.
Benvenute e benvenuti a quella che (salvo sorprese) sarà l’ultima uscita della newsletter prima della pausa estiva.
Si riprende, come nei migliori buoni propositi, la prima settimana di settembre, con diversi progetti in cantiere che potrebbero portare questo piccolo spazio a cambiare un po’ forma.
Intanto grazie a chi ha avuto la voglia di leggere, commentare, condividere, e a Fandango Libri che ha sostenuto questo lavoro.
Dar Maghetto è un’osteria romana nel quartiere di San Lorenzo. Si trova su via dei Reti quasi all’angolo con via Tiburtina. Su Tripadvisor ha quattro stelle ma a chi scrive sembra un giudizio decisamente sopravvalutato. È uno di quei locali sempre identico a se stesso, in cui trovi sempre le stesse cose, e diciamocelo per quanto possa essere rassicurante, anche volendo puntare sul rapporto qualità/prezzo, non è il massimo.
Aperto pranzo a cena, qui ci si può incontrare spesso e volentieri (soprattutto nel week end) Antonio Angelucci, il tycoon della destra italiana, che ha costruito un impero sulla sanità privata convenzionata e che ha nelle sue mani una bella fetta dei giornali di destra. Sapere che Angelucci è al suo tavolo non è difficile: fuori, parcheggiata rigorosamente sulle strisce pedonali, all’angolo tra via dei Reti e via dei Volsci, c’è la sua Ferrari. Sotto il sole aspetta uno dei due bodyguard da cui si è fatto scortare anche all’insediamento dell’ultima legislatura. Dentro, più fortunato, c’è l’altra guardia del corpo. Entrambi ovviamente vestiti con giacca, pantaloni e cravatta nera, camicia bianca.
Stile gangsta più che da grande imprenditore ormai arrivato nelle stanze che contano, una cosa è certa: con Antonino non si scherza. Pluri inquisito finora è cascato sempre in piedi. Ai giornalisti regala querele come se piovesse, mentre gli amici di centrodestra gli regalano ormai un seggio fisso in parlamento con relativa immunità. Ma lui a fare il parlamentare non ci va proprio mai: recordman di assenze per tre legislature, prima prendeva il treno di Forza Italia per arrivare in aula a Montecitorio, ora gli ha preferito la Lega.
Si è fatto da solo dice Angelucci, classe 1944, nato a Sante Marie, piccolo comune in provincia dell’Aquila. Con la licenza di terza media in tasca arriva a Roma e inizia a lavorare. Prima commesso in farmacia, poi portantino e poi la veloce scalata dai Castelli Romani all’olimpo della politica, dell’editoria e della finanza italiana. Sono i fantastici e creativi anni Ottanta, tempo in cui chi sa cogliere le opportunità si riempie le tasche. Da una parte c’è il banchiere Cesare Geronzi, dall’altra il presidente della Regione Lazio Giulio Santarelli. Angelucci ottiene l’accredito per le sue strutture, e il credito per i suoi affari.
È il mito del self-made man che alimenta senza posa.
Alle telecamere di Report racconta: “Sono settant’anni che io lavoro. Avevo cinque anni, mio padre mi svegliava alle quattro di mattina per andare ai mercati generali”. Per il resto lui non sa niente: delle assoluzioni e dei processi si occupa l’avvocato, della scelta di mettere le società che controllano il suo impero a Lussemburgo e a Cipro neanche. Angelucci si è fatto da solo, nessuno aiuto dalla politica ribadisce, occhiali con le lenti colorate di viola, collana d’oro al collo e tuta acetata.
I soldi veri li fa negli anni 2000 e 2001 con l’affare del secolo: compra l’Ospedale romano su via Laurentina dell’Istituto San Raffaele di Milano di Don Verzè, e poi lo rivende subito dopo pochi mesi dopo alla Regione Lazio per una cifra astronomica.
Angelucci lavora, lavora sodo non c’è dubbio e impara a rendersi indispensabile. Quando la Regione Lazio ha bisogno di una struttura per un ospedale Covid ecco che lui è pronto, quando Francesco Rocca si insedia alla Pisana come prima cosa vuole decongestionare i pronto soccorso. E come? Ricorrendo ai posti letto dei privati ovviamente. Di 22 milioni e 900 mila euro letto messi sul piatto, poco meno della metà vanno ad Angelucci e alle sue cliniche. Niente di illegale, ma il livello di commistione tra politica e affari nella sanità del Lazio è innegabile: Rocca è stato nel Cda del San Raffaele di Angelucci, e ha guidato la Confapi Sanità fianco a fianco a Giampaolo Angelucci, figlio del patron.
Quando ormai era chiaro che le elezioni erano perse, il centrosinistra vota per riaccreditare la Rsa di Rocca di Papa dichiarata zona rossa nella prima fase della pandemia. Qui si sono registrati 78 positivi e 21 morti. Anche per le istituzioni locali che hanno chiesto di andare a fondo su eventuali responsabilità e sul rispetto delle regole, il ritiro dell’accredito non è la soluzione: sono posti di lavoro, e sono servizi che altrimenti non ci sarebbero in questo pezzo di provincia romana. E tutto torna a posto: l’accreditamento della struttura viene confermato.
Angelucci sa rendersi indispensabile, ma sa anche rendersi utile. L’investimento in editoria (non esattamente il settore dove realizzare profitti d’oro) lo porta a governare Il Tempo, il Corriere dell’Umbria, Libero e da qualche mese anche Il Giornale. Subito dopo l’acquisto dello storico giornale della famiglia Berlusconi si parla di un suo ingresso nella struttura societaria de La Verità. Difficile dire se l’affare sia sfumato o solo rimandato, certo è che qualora servisse lui almeno al tavolo si siederebbe per discuterne.
Da imprenditore arrembante a Tycoon il passo è breve dunque. Ma Angelucci non vuole fare politica nel senso di farsi votare o mettere il suo faccione nei talk, lui a fare il parlamentare in centro non ci va quasi mai, a lui serve la politica (quando i procedimenti giudiziari cominciano a farsi più stringenti eccolo catapultarsi in parlamento) e lui sa cosa serve ai partiti che lo sostengono: i media. E non è poca cosa: Angelucci oggi controlla quattro quotidiani, che rappresentano un punto di riferimento per la maggioranza di governo. Basta pensare che il portavoce della premier Giorgia Meloni, il giornalista Mario Sechi, dopo essere durato pochi mesi andrà al timone di Libero.
Per il resto lui non ne sa niente e non ne vuole sapere, va a mangiare Dar Maghetto anche se si potrebbe permettere ben altre mense. Va in giro con il Ferrari e i tirapiedi con il gessato, ma gli piace fare la scarpetta in trattoria. Non ha sogni di grandezza politica, non vuole frequentare salotti dove non può essere se stesso, per carità, ha un’età ormai per cambiare. Non gli interessano i dettagli, l’importante è lo schema generale che deve funzionare. Lui sono settant’anni che lavora per carità, bada al sodo e segue una semplice regola: se ti rendi indispensabile, gli altri si daranno da fare per te. Anche con un seggio in parlamento che non occupi quasi mai.